Le bombe sulla Siria e la svolta di Tel Aviv
Massicci raid nelle ultime settimane, di cui uno sull’aeroporto internazionale di Damasco, reo d’essere una rimessa d’armi iraniane.
Non è la prima volta che gli aerei israeliani bombardano la Siria. La novità è che Netanyahu ha permesso ai suoi generali di parlarne e loro, già che c’erano, hanno orgogliosamente ammesso d’aver colpito dall’aria migliaia di volte, già prima dell’inizio della guerra civile che dilania il paese da ben oltre un lustro. Una svolta a tutti gli effetti, al punto da far sobbalzare analisti ed esperti di guerre coperte sulle loro poltrone.
Perché sbandierare urbe et orbi quello che il diritto internazionale s’ostina a considerare malefatte? Tanto più ora che gli Usa lasciano la presa passando la palla ai turchi con l’annunciato ritiro dal Kurdistan, e Deir Ezzor resta in mano all’Isis, coi miliziani di Assad sostenuti dai mercenari russo iraniani che si dissanguano.
L’obiettivo mediatico è chiaro: nessuno s’illuda che riaprire l’ambasciata o fare scalo a Damasco – vedi l’Italia e gli Emirati – sia scevro da pericoli. Quello tattico pure: testare le nuove batterie missilistiche siriane installate dai russi per neutralizzarle meglio.
Ma nel vuoto politico minacciato da Trump la voce grossa fatta da Tel Aviv è ancora più chiara: la guerra a Teheran e ad Assad che gli tiene bordone è aperta e senza quartiere, alla faccia dell’Onu e in nome della sicurezza nazionale.
Aspettando quella Nato araba che dovrebbe prendere corpo a Varsavia a metà febbraio e Israele vuole impegnata contro l’Iran. In nome suo e dell’Occidente orfano dell’America.
MAURIZIO ZUCCARI
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