Referendum costituzionale
4:44 pm, 1 Dicembre 16 calendario

Breviario del referendum Il voto sulla Costituzione il 4 dicembre

Di: Redazione Metronews
condividi

NORME FINALI Gli articoli da 38 a 41 riguardano le disposizioni transitorie e finali relative alle modifiche costituzionali. Così, tra l’altro, l’articolo 38 adatta il dettato costituzionale all’assenza del Senato elettivo, stabilendo per la sola Camera l’elezione dei deputati entro 70 giorni dalla fine della precedente. L’articolo 39 regola invece le modalità di elezione dei futuri senatori nei consigli regionali e nella provincia autonoma di Trento, mentre l’articolo 40, oltre a vietare la possibilità di trasferimenti monetari dalle finanze pubbliche alle casse dei gruppi politici regionali, prevede che per i senatori della provincia autonoma di Bolzano in sede di prima applicazione ogni consigliere possa votare per due liste di candidati, formate dai consiglieri e dai sindaci. L’ultimo articolo (41) riguarda la potenziale entrata in vigore della riforma, che in caso di esito referendario positivo, domenica 4 dicembre, è prevista per il giorno successivo alla ripubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Le novità introdotte dalla legge costituzionale si applicherebbero a partire dalla legislatura successiva al prossimo scioglimento delle camere, eccetto alcune disposizioni di immediata applicazione, tra cui la soppressione del Cnel. Il nuovo titolo V della Costituzione, relativo alle autonomie regionali e dunque all’accentramento statale accolto grazie alla “clausola di supremazia”, non si applica alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti. Questi prevedono comunque limiti alla potestà legislativa regionale, a eccezione della Sicilia.
Articolo 37 – La Corte Costituzionale
L’articolo 37 riguarda la nomina dei giudici della Corte costituzionale. Recita l’articolo 135 della Costituzione, modificato dall’articolo 37 della riforma: “La Corte costituzionale è composta da 15 giudici, dei quali un terzo nominati dal presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative, tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica”. Per quanto riguarda la Suprema Corte, dunque, le modifiche riguardano i 5 (su 15) giudici di nomina parlamentare, eletti separatamente dai due rami del Parlamento, che ne nominano rispettivamente tre la Camera e due il Senato, e non più dal Parlamento in seduta comune. Viene così eliminata la convocazione della seduta per la votazione congiunta dei giudici “politici”, che saranno eletti dalle singole camere. Restano ferme le altre disposizioni sulle modalità di formazione delle liste per i 16 giudici aggregati della Corte nei casi di giudizio d’accusa contro il presidente della Repubblica. A tale riguardo, per far fede al nuovo Senato non più eletto dai cittadini – anche se il tema è oggetto di controversie, essendo non ben definita dalla riforma l’eventuale scelta popolare per i senatori tratti dagli eletti negli enti locali – si abbassa anche l’età per diventare giudice aggregato alla Corte costituzionale nei giudizi contro il Capo dello Stato. Basterà avere i requisiti per l’eleggibilità a deputato: 25 anni invece di 40, oggi necessari per l’eleggibilità a senatore. Tra le disposizioni transitorie si stabilisce che in prima applicazione dell’articolo 135 alla cessazione dei giudici in carica i nuovi saranno eletti alternativamente dal Senato e dalla Camera.
Articoli 35 e 36 – Gli stipendi degli organi regionali
Gli articoli 35 e 36 trattano dei limiti agli stipendi e della soppressione della commissione parlamentare regionale. Il nuovo articolo 122, modificato dall’articolo 35 della riforma, intende porre un argine costituzionale al malcostume nella retribuzione degli organi regionali, fissando un limite agli stipendi dei componenti della giunta che non potranno essere superiori a quelli previsti per il sindaco di un comune capoluogo di regione. Va ricordato che l’indennità di servizio mensile per i sindaci da 100 mila a oltre 500 mila abitanti varia dai 5mila agli 8mila euro. Nell’articolo 122 viene introdotta la possibilità che una legge statale stabilisca i principi fondamentali per promuovere l’equilibrio tra uomini e donne nelle rappresentanze regionali. Restano le altre disposizioni relative a ineleggibilità e incompatibilità, divieto di cumulare cariche per consiglieri e assessori, immunità per le opinioni espresse durante le loro funzioni ed elezione diretta del presidente della giunta, salvo non diversamente previsto dallo statuto regionale. Riguardo ancora alle questioni attinenti le regioni, con la modifica all’articolo 126, sancita dall’articolo 36, scompare la Commissione parlamentare per le questioni regionali, finora composta da 20 deputati e 20 senatori. Sarà il nuovo Senato a fornire il parere sul decreto di scioglimento dei consigli regionali o di rimozione dei presidenti delle giunte che compiono atti incostituzionali o gravi violazioni di legge che dovrà essere emanato dal presidente della Repubblica. Restano ferme le disposizioni sulla mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta da parte del consiglio regionale.
Articoli 33 e 34 – Risorse degli enti locali
Gli articoli 33 e 34 trattano delle risorse degli enti locali e del potere sostitutivo del governo. All’articolo 33 della riforma (che modifica l’articolo 119 della Costituzione) oltre all’adeguamento sulla scomparsa delle province sono introdotte alcune novità sulla ripartizione delle risorse degli enti territoriali. Le entrate degli enti locali vanno usate dall’amministrazione pubblica in base a indicatori di riferimento di costo e fabbisogno capaci di promuovere condizioni di efficienza. Resta l’obbligo di equilibrio di bilancio a carico degli enti, la possibilità di tributi locali e la compartecipazione di quelli erariali, oltre al già esistente fondo perequativo, senza vincolo di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale pro capite. Permangono inoltre la possibilità di reperire risorse statali per sviluppo, coesione e solidarietà tra i territori e la possibilità d’indebitamento per investimenti infrastrutturali, esclusi però da garanzie statali. Al successivo articolo 34 viene introdotto l’obbligo, da parte del governo, di sentire il parere del Senato – che si deve esprimere entro 15 giorni – quando esso intenda sostituirsi alle funzioni di un ente locale che violi una norma o un trattato internazionale, lo richieda l’incolumità e la sicurezza pubblica o la tutela dell’unità giuridica ed economica nazionale. Il nuovo articolo 120 della Costituzione vede un’ulteriore modifica in favore dell’esecutivo. Si introduce la possibilità di stabilire i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle funzioni quando è accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente. Restano ferme le altre disposizioni per le regioni.
Articolo 32 – Sussidiarietà degli enti territoriali
L’articolo 32 ha per tema funzioni e sussidiarietà degli enti territoriali. Con la riforma, ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza delle funzioni amministrative si aggiungono i principi di semplificazione ed efficienza, nell’ottica di un miglior funzionamento della Pubblica amministrazione. La modifica costituzionale sancita dall’articolo 32 adegua l’articolo 118 alla soppressione delle province e prevede da parte degli enti locali l’onere di assicurare «la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa secondo criteri di efficienza e di responsabilità». Ulteriore novità introdotta al medesimo articolo è l’intesa e la coordinazione tra Stato e regioni sui beni paesaggistici, oltre che culturali, ai fini di una tutela ambientale omogenea sul territorio nazionale. Secondo i detrattori della riforma, la novità stabilisce un ulteriore limite al principio di sussidiarietà. Tale concezione, nata all’interno del mondo cattolico sul finire dell’800 in ostilità ai principi dello Stato liberale, prevede che questo faccia solo ciò che i cittadini, associati tra loro, non sono in grado di fare da soli (sussidiarietà orizzontale). Nell’organizzazione di uno Stato rispettoso di tale principio, la dimensione più importante è quella più vicina ai cittadini, cioè il comune, da cui si ascende (sussidiarietà verticale). Pertanto le cose deve farle l’ente più vicino ai cittadini, derogando via via che i problemi si fanno più complessi e serve una struttura adeguata, statale. I fautori del sì sottolineano invece come con tali novità la riforma introduca temi moderni: semplificazione, trasparenza, efficienza e responsabilità di chi amministra.
Articolo 31 – Potestà legislativa delle regioni
Secondo quanto prevede l’articolo 31, alle regioni resta la potestà legislativa esclusiva in alcune materie. Queste riguardano le minoranze linguistiche, la pianificazione del territorio, la mobilità e le infrastrutture regionale, i servizi sanitari e sociali locali, come pure lo sviluppo economico, i servizi alle imprese e la formazione professionale, le istituzioni scolastiche, le attività culturali, la promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, nonché la valorizzazione turistica regionale. Le regioni, inoltre, possono regolamentare ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato, secondo quanto stabilito dall’articolo 117 riformato. Lo Stato, però, si riserva la potestà legislativa sulle materie non di sua esclusiva competenza quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica del Paese, ovvero la tutela dell’interesse nazionale, sempre preminente su quello locale. È fatta salva la facoltà dello Stato di delegare alle regioni l’esercizio di tale potere nelle materie di propria competenza esclusiva. Comuni e città metropolitane hanno anch’esse potestà regolamentare, nel rispetto della legge statale o regionale. Le leggi regionali, ribadisce il nuovo dettato costituzionale all’art. 31, rimuovono ogni ostacolo che impedisca la parità di uomini e donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di genere nelle cariche elettive. Le stesse leggi ratificano le intese interegionali per l’esercizio delle proprie funzioni, individuando gli organi comuni. Infine, nelle materie di propria competenza la regione può concludere accordi e intese con enti territoriali di altri Stati.
Articolo 31 – Potestà legislativa esclusiva
L’articolo 31 tratta della potestà legislativa esclusiva. Una vera e propria rivoluzione copernicana riguarda la modifica all’articolo 117 della Costituzione, relativo alla potestà legislativa esercitata dallo Stato e dalle regioni, con la scomparsa delle materie in cui tale potere è concorrente e l’ampliamento delle facoltà statali. Al potere centrale torna la competenza esclusiva, tra l’altro, su protezione civile, reti energetiche, infrastrutture e grandi reti di trasporto, porti e aeroporti civili, ordinamento delle professioni. In particolare, alle usuali competenze esclusive in materia di difesa e politica comunitaria si aggiungono quelle sulla disciplina del lavoro, la tutela della salute, le politiche sociali e della previdenza sociale, l’istruzione scolastica e universitaria, la legislazione elettorale, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, paesaggistici e ambientali, l’ordinamento sportivo, le attività culturali e il turismo, l’ordinamento delle professioni e delle comunicazioni, il governo del territorio, la gestione della protezione civile, le infrastrutture strategiche e le grandi reti di trasporto e di navigazione, porti e aeroporti di interesse nazionale, come pure le infrastrutture energetiche. Il governo prevede così di avere l’ultima parola nelle opere pubbliche o private dichiarate d’interesse nazionale, quali la Tav o le trivellazioni in mare, rendendo più difficili eventuali opposizioni. In definitiva, la riforma riporta molte competenze di primaria importanza in capo allo Stato, facendo retromarcia sulla devoluzione del 2001, nel presupposto che materie di elevata rilevanza per il Paese necessitino di una disciplina omogenea.
Articolo 30 – Le Autonomie regionali
L’articolo 30 tratta delle Autonomie regionali. Restano ferme le autonomie delle 5 regioni a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta), nonché delle due province autonome di Trento e Bolzano, la cui esistenza e prerogative si mantengono immutate nonostante la soppressione degli analoghi enti locali, come stabilito dal nuovo dettato costituzionale all’articolo 114. Anche le restanti regioni a statuto ordinario possono godere di maggiore autonomia legislativa, benché la riforma riduca l’ambito delle materie nelle quali possono essere attribuite loro particolari forme di autogoverno. A questo proposito, con la modifica all’articolo 116 della Costituzione, sancita dall’articolo 30, un surplus di autogoverno può aversi solo in caso di equilibrio di bilancio tra entrate e spese della regione in questione, al fine di evitare sprechi e premiare le regioni virtuose. Le materie in cui le regioni possono godere di potestà legislativa, oltre a quelle costituzionalmente previste al successivo articolo 117, sono relative all’organizzazione della giustizia di pace, politiche sociali, del lavoro, dell’istruzione e della formazione professionale, commercio con l’estero e governo del territorio. Le leggi che stabiliscono tali autonomie devono passare al vaglio di entrambe le camere, senza più l’obbligo del quorum della maggioranza assoluta dei componenti. Permane la conferenza Stato-regioni. In buona sostanza, secondo i promotori, la riforma costituzionalizza il criterio meritocratico, mettendo fine agli sprechi di risorse e competenze. Per i fautori del no la riforma è centralista e svuota gli enti locali.
Articolo 29 – Abolizione delle Province
L’articolo 29 tratta dell’abolizione delle province che, con la modifica all’articolo 114 dalla Costituzione, spariscono. Restano gli altri enti locali: comuni, comunità montane, città metropolitane e regioni, oltre allo Stato. L’articolo 29 della riforma dà rilievo costituzionale e concreta attuazione alla riforma del ministro Delrio di due anni fa. In pratica, alle dieci città metropolitane a statuto ordinario (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) e alle quattro a statuto speciale (Cagliari, Palermo, Messina e Catania) passerebbero le competenze provinciali: scuole, trasporti, strade, pianificazione del territorio e ambiente, parchi compresi. I 60 mila dipendenti delle province non saranno licenziati ma verranno trasferiti ad altri enti, con lo stesso stipendio. Tagliando quasi 4.000 tra presidenti, consiglieri e assessori provinciali, si risparmiano una trentina di milioni. Dato che il costo totale delle province è di 12 miliardi, si tratta di un risparmio modesto, sottolineano i fautori del no. Oltretutto la medesima legge, ribadita dalla riforma costituzionale, oltre a stabilire che i consigli delle città metropolitane siano eletti dai consiglieri comunali, aumenta il personale politico ai comuni. I consiglieri dei municipi passano infatti da 6 a 10, con un aumento di 24 mila eletti (pagati però assai meno dei 3.700 aboliti delle province). Insomma, un’abolizione che tutto sommato non porterà a una sensibile riduzione dei costi, pur in presenza di una cancellazione degli istituti risalenti ai primordi dell’unità d’Italia, mentre permangono città metropolitane (ex province) di milioni di residenti (vedi Roma) e altre con poche centinaia di migliaia come Reggio, Messina o Cagliari.
Articolo 28 – Soppressione del Cnel
L’articolo 28 prevede la soppressione del Cnel. Con l’abrogazione dell’articolo 99 della Costituzione scompare il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. La sua eliminazione è uno dei cavalli di battaglia della riforma in chiave di spending review, e in caso di vittoria dei sì sarebbe d’immediata attuazione, mentre le varie novità costituzionali si applicherebbero dalla prossima legislatura. Il Cnel è composto da 64 consiglieri, suddivisi in 10 esperti, 8 nominati dal Capo dello Stato e 2 dal presidente del Consiglio, 48 rappresentanti delle categorie produttive e 6 delle organizzazioni del volontariato. Ogni anno lo Stato stanzia per l’organo consultivo una ventina di milioni (29,7 al bilancio 2014), 3 dei quali per il personale e quasi 2 per le “competenze fisse e continuative” del presidente (anch’esso di nomina presidenziale), dei 2 vice e dei 64 consiglieri. Si tratta per la maggior parte di pensionati che svolgono il ruolo di consulenti come secondo o terzo lavoro, per uno stipendio che al netto di tasse e trattenute si aggira sui 1.300 euro. In 50 anni di attività il Cnel ha pubblicato un migliaio tra “pareri, osservazioni, dossier, relazioni” e avanzato 14 proposte di legge, nessuna delle quali approvata dal Parlamento. Gualaccini, ex vicepresidente del Cnel, ha sostenuto che i costi sono di gran lunga inferiori, attestandosi sugli 8,7 milioni. Di questi, 4,5 milioni sono costi per il personale e 3 per la sfarzosa struttura nel cuore di Roma, Villa Lubin. Costi di gestione della sede e dei dipendenti – che non potranno essere licenziati ma passeranno alla Corte dei Conti – andrebbero dunque a carico di altre istituzioni, senza alcun risparmio effettivo.
Articoli 25-27 – Fiducia
Gli articoli da 25 a 27 riguardano la fiducia al governo. La modifica all’articolo 94 stabilisce che solo la Camera concede e revoca la fiducia al governo. Il rapporto fiduciario pertanto non sarà più tra l’esecutivo ed entrambe le camere, come oggi, ma solo con la Camera. Quella sancita dall’articolo 25 è una delle norme chiave della riforma che mira al superamento del bicameralismo perfetto, introducendo  un bicameralismo differenziato. La Camera sarà dunque l’unica a esercitare pienamente la funzione legislativa, d’indirizzo politico e di controllo sul governo, restando perciò la sola titolare del rapporto di fiducia con lo stesso. I deputati rimangono quindi i soli rappresentanti della nazione, a differenza dei senatori che nello spirito della riforma divengono rappresentanti delle istituzioni territoriali. Al nuovo Senato spettano funzioni di raccordo tra lo stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica, e con l’Unione europea. Conseguenza di questo cambiamento nel rapporto tra parlamento e governo è la modifica al successivo articolo 96 (riformato dall’art. 26), relativo ai reati ministeriali. Solo la Camera avrà la facoltà di autorizzare la persecuzione da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria per i reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni, e non più entrambe le camere. Il successivo articolo 27 della riforma tratta della pubblica amministrazione, introducendo costituzionalmente (all’art. 97) il principio della trasparenza di atti pubblici, oltre che il buon andamento e l’imparzialità, già previsti.
Articoli 22-24 – Funzioni del Capo dello Stato
Fermi restando i requisiti costituzionalmente previsti dall’art. 84 per l’eleggibilità del presidente della Repubblica (50 anni e godimento dei diritti civili e politici), la modifica dell’articolo 85, sancita dall’art. 22 della riforma, adegua il dettato costituzionale alla scioglibilità della sola Camera e il nuovo Parlamento alla scomparsa dei delegati regionali, prevedendo che sia il presidente del Senato a convocare e presiedere la seduta comune per l’elezione del capo dello stato e non il presidente della Camera, qualora questi lo sostituisca in caso di dimissioni o altri impedimenti. Infatti, il nuovo articolo 86 della Costituzione, riformato dall’articolo 23, stabilisce che le funzioni del presidente della Repubblica siano esercitate dal presidente della Camera dei deputati e non del Senato, com’è attualmente, in tutti i casi di impedimento permanente, morte o dimissioni. Ancora in merito all’esercizio delle funzioni, con la modifica all’articolo 88 (art. 24 della riforma) è sancita la scioglibilità da parte del presidente della Repubblica della sola Camera dei deputati, sentito il parere del suo presidente. Il Senato della Repubblica non è più scioglibile. Permane la disposizione sull’impossibilità da parte del presidente di sciogliere la Camera dei deputati negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo non coincidano con gli ultimi sei mesi della legislatura. Conseguentemente, il presidente indice unicamente le elezioni della Camera dei deputati e ratifica i trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, previa autorizzazione di entrambe le camere. Restano immutate le altre sue funzioni previste dall’art. 87 della Costituzione.
Articolo 21 – Capo dello Stato
L’articolo 21 riguarda l’elezione del presidente della Repubblica. Con la riforma cambia infatti anche il sistema di elezione del Capo dello Stato e dunque l’articolo 83 della Costituzione. In primo luogo scompaiono i delegati regionali (tre per ogni regione, con l’eccezione della Val d’Aosta che ne ha uno), accanto ai parlamentari di Camera e Senato riuniti in seduta comune, perché si ritiene esaustivo il compito di rappresentanza delle regioni nel nuovo Senato. Riguardo al quorum richiesto per la nomina, i primi tre scrutini restano a maggioranza dei due terzi dell’assemblea, come previsto finora, mentre dal quarto scrutinio non basterà più la maggioranza assoluta ma serviranno i tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio in poi i tre quinti non sono più riferiti all’assemblea ma ai votanti. Il calcolo del quorum sui votanti anziché sui componenti comporta che lo stesso diventi variabile, a partire dal settimo scrutinio. Ai fini del numero legale, l’art. 64 della Costituzione (immutato) stabilisce che le deliberazioni delle Camere e del Parlamento sono valide se è presente la maggioranza dei membri. Ipotizzando dunque un’assemblea congiunta di 732 grandi elettori (630 deputati, 100 senatori e 2 presidenti emeriti), le votazioni vedrebbero un numero legale di 367 presenti, con un quorum necessario di 488 voti nei primi tre scrutini e di 440 nei successivi, eventualmente minore dal settimo in caso di assenti o astenuti. A quanti, nel fronte del no, criticano l’elezione del presidente della Repubblica come non ben disciplinata, i fautori del sì replicano come la riforma preveda quorum più alti, ma ciò manterrebbe una certa influenza ai gruppi di opposizione.
Articolo 20 – Le Commissioni d’inchiesta
L’articolo 20 riguarda le inchieste parlamentari. Le modifiche all’articolo 82 della Costituzione chiudono le novità al secondo titolo della Carta costituzionale, relative al Parlamento, introducendo una differenza riguardo alle inchieste parlamentari. Viene mantenuta la norma in base alla quale la Camera può disporre inchieste su materie d’interesse pubblico, mentre il Senato può disporre indagini solo su materie “concernenti le autonomie territoriali”. Secondo il nuovo disposto della Costituzione, ogni camera nomina fra i propri componenti i membri della commissione d’inchiesta. Viene previsto per la sola Camera l’obbligo che la composizione sia proporzionale ai vari gruppi parlamentari, com’è attualmente, mentre non è prevista alcuna disposizione per le commissioni senatoriali, la cui composizione potrà eventualmente essere definita dal regolamento del Senato. La nuova normativa ha sollevato critiche da parte dei contestatori della riforma che denunciano un presunto “svuotamento di democrazia”, dovuto tanto all’eliminazione del Senato come possibile contropotere d’inchiesta, quanto alla mancata previsione di contropoteri in capo alle opposizioni. Come l’avvio d’inchieste parlamentari per iniziativa di una minoranza qualificata che in Germania, ad esempio, esiste sin dalla Costituzione di Weimar. Nella riforma Boschi la questione è stata oggetto di più emendamenti, respinti dal governo. Al momento, sono tre le commissioni d’inchiesta istituite al Senato e oltre una settantina le proposte d’inchiesta alla Camera: dalle periferie ai casi Pasolini e Moro, fino a Mafia capitale.
Articolo 17 – Lo stato di guerra
Guerra, amnistia e trattati Nel nuovo dettato costituzionale la deliberazione dello stato di guerra dovrà essere fatta dalla sola Camera dei deputati e non più da entrambe le camere come avviene oggi (art. 78). Anche le leggi di amnistia e indulto saranno emanate dalla sola Camera, sempre a maggioranza dei due terzi dei componenti, e non più da entrambe (art. 79), come pure l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali – fatta eccezione per quelli relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – dovrà essere concessa unicamente dalla Camera (art. 80) e non anche dal Senato. Idem per quanto riguarda l’approvazione della legge di bilancio e il ricorso all’indebitamento (art. 81). Al di là della coerenza logica e lessicale della nuova normativa, i critici della riforma sottolineano l’incongruenza del nuovo articolo 78 che assegna alla sola Camera la delibera dello stato di guerra. Una decisione che verrebbe presa oltretutto a maggioranza assoluta (come per il ricorso al debito). Ciò significa, data la legge elettorale –anch’essa da riformare e soggetta al vaglio parlamentare – che solamente una risicata maggioranza della Camera potrebbe prendere una decisione così grave, a cui resterebbero plausibilmente estranee le forze d’opposizione e una larga parte del Paese. Meglio sarebbe stato, sottolineano i fautori del no, fare riferimento a una maggioranza più qualificata, ad esempio dei 2/3. Inoltre la riforma del nuovo articolo 60 prevede solo per la Camera dei deputati la proroga in caso di guerra. Dunque si rinnoverebbe il Senato durante un conflitto.
Articolo 16 – Decretazione d’urgenza
Oltre ad adeguare l’articolo 77 della Costituzione alle novità previste dalla riforma, quindi Senato privato di parità legislativa e non più scioglibile, la normativa introduce nuove disposizioni sui decreti legge, costituzionalizzando alcuni limiti alla decretazione d’urgenza del governo, come già previsto da una legge dell’‘88 e varie sentenze della Consulta. Innanzitutto, all’esecutivo è proibito emanare decreti che disciplinano i temi già indicati nell’articolo 72, quinto comma (materia costituzionale ed elettorale, delegazione legislativa, conversione di decreti in legge, ratifica dei trattati internazionali e approvazione di bilanci e consuntivi). Restano esclusi dal campo elettorale, dunque disciplinabili dal governo, il procedimento elettorale e lo svolgimento delle elezioni. All’esecutivo è anche proibito reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare l’efficacia di norme o atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi di merito e non attinenti al procedimento. Inoltre, i decreti dovranno essere d’immediata applicazione e contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo, senza norme estranee al tema o al fine del decreto stesso, contrariamente a quanto avvenuto con una certa frequenza negli ultimi tempi. Il Senato può vagliare il decreto entro 30 giorni dalla presentazione alla Camera dei deputati – che deve trasformarlo in legge negli usuali 60 giorni, 90 in caso di nuova deliberazione richiesta dal presidente della Repubblica – e proporre le sue modifiche entro 10 giorni dalla trasmissione, che non deve avvenire oltre 40 giorni dalla presentazione del testo alla Camera.
Articolo 15 – Il referendum abrogativo
L’articolo 15 della riforma riguarda il referendum abrogativo. Il nuovo articolo 75 della Costituzione ribadisce la possibilità di indire un referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o un atto avente forza (non più valore) di legge, quando lo richiedono 500 mila elettori o 5 consigli regionali. Non è ammesso referendum relativamente alle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. La proposta è approvata se partecipa al referendum la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da 800 mila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. Insomma, la riforma nel dettato dell’articolo 15 cambia solamente un po’ l’istituto del referendum abrogativo com’è attualmente previsto dalla carta costituzionale. Rimangono gli stessi i soggetti abilitati al proporlo, elettori e consigli regionali, e sono le stesse le leggi non sottoponibili al giudizio popolare. Quello che cambia è la nozione di quanti sono chiamati alle urne: “tutti gli elettori” e non più “tutti i cittadini chiamati a eleggere la Camera dei deputati”. Soprattutto, viene introdotta la possibilità che il referendum sia approvato con la semplice maggioranza dei votanti alle elezioni per la Camera, se la proposta referendaria è fatta da oltre 800 mila elettori. Si abbassa così il quorum della maggioranza degli elettori, con la possibilità di una più facile approvazione del referendum. Rimane la delega alla legge per le concrete modalità di attuazione del referendum.
Articolo 14 – Rinvio alle Camere
Relativamente al veto presidenziale alla promulgazione delle leggi, la riforma Renzi-Boschi introduce una previsione particolare. Fermo restando la facoltà per il Presidente della Repubblica del rinvio alle camere, con messaggio motivato, con l’obbligo di promulgare all’eventuale seconda deliberazione, si differisce di trenta giorni il termine per la conversione in legge di un decreto governativo, con un ampliamento dei tempi di permanenza in vigore del decreto stesso (art. 74). Inoltre, il termine dei sessanta giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale resta quello tradizionale, ma si aggiunge un limite più ampio di novanta giorni nel caso in cui il Capo dello Stato eserciti il potere di rinvio della legge di conversione (art. 77). Tale norma è speculare alla disposizione dell’art. 14 che prevede, appunto, un termine per la conversione differito di trenta giorni. L’innovazione risponde all’opportunità di impedire che il dilatarsi del passaggio, a seguito del rinvio presidenziale della legge, impedisca la conclusione del procedimento in tempo utile, causando la caduta del decreto non convertito in legge. Al tempo stesso, si vuole evitare che l’approvazione della legge di conversione in prossimità della scadenza dei sessanta giorni produca una sorta di pressione sul capo dello stato perché proceda alla promulgazione, per non provocare la decadenza del decreto. Il tempo supplementare di permanenza in vigore del decreto a seguito del rinvio presidenziale appare giustificato dalla necessità di non prolungare un provvedimento legislativo provvisorio oltre i tempi stabiliti, e dalla previsione che la discussione parlamentare si limiti ai soli rilievi posti dal Capo dello Stato.
Articolo 13 – Legittimità costituzionale preventiva
Con l’articolo 13 della riforma si modificano gli articoli 73 e 134 della Costituzione, attribuendo una nuova competenza alla Corte costituzionale. Forte dell’esperienza maturata con il Porcellum (legge 270 del 21 dicembre 2005, a firma Calderoli), la legge elettorale in vigore nel decennio 2006-2016 e sostituita dall’Italicum quest’anno – in quanto dichiarata incostituzionale per la mancata previsione della soglia di sbarramento e la presenza di lunghe liste bloccate – la norma introduce nella carta costituzionale la nozione di legittimità preventiva per le sole leggi elettorali. Un giudizio che dovrebbe applicarsi in primis proprio all’attuale sistema di voto introdotto dall’Italicum, per la sola Camera dei deputati, e finora inapplicato. L’attuale premier al governo, che l’ha voluto fortemente, non è infatti uscito dall’avallo di una prova elettorale ma da una manovra parlamentare. Le due camere – anche il Senato, dunque – possono sottoporre al giudizio preventivo di legittimità costituzionale della suprema corte la legge che disciplina l’elezione del Parlamento, attraverso un ricorso motivato promosso da almeno un quarto dei deputati o un terzo dei senatori, entro dieci giorni dall’approvazione della legge. Questa non può essere promulgata se non è decorso tale periodo, idem nei successivi trenta giorni entro i quali la corte si pronuncia in merito alla sua costituzionalità. Se dichiarata costituzionalmente illegittima la legge non può essere promulgata. Restano salve, nel dettato costituzionale, l’urgenza della promulgazione, se decisa a maggioranza assoluta (dalla sola Camera dei deputati), e l’entrata in vigore a quindici giorni dalla pubblicazione.
Articolo 12 – Deliberazione d’urgenza
L’articolo 12 tratta dell’esame delle leggi e deliberazione d’urgenza. Nulla cambia rispetto al dettato costituzionale relativamente alle modalità di formazione delle leggi. Ogni disegno di legge presentato alla Camera, recita l’articolo 72 della Costituzione, rientri o meno nelle materie disciplinate all’articolo 70, è esaminato dalla commissione ad hoc, e poi dalla stessa Camera, secondo le norme del proprio regolamento. Ferme restando le disposizioni esistenti per la Camera dei deputati, con la modifica prevista dall’articolo 12 della riforma si differenzia la procedura d’esame e approvazione delle leggi del Senato rispetto a questa. Infatti, tramite il suo regolamento il Senato può disciplinare l’esame dei disegni di legge che lo interessano. Ben più importante e la facoltà data per la prima volta al governo di chiedere una deliberazione d’urgenza alla Camera (entro 5 giorni), affinché venga posto con la massima priorità all’ordine del giorno dei lavori un testo ritenuto essenziale per il programma dell’esecutivo, che dovrà essere esaminato in via definitiva entro 70 giorni dalla delibera. Tale procedura non è attivabile nel caso di riforme costituzionali, leggi elettorali, di ratifica dei trattati internazionali, di bilancio e comunque di quanto disposto dall’articolo 70. Anche i tempi per l’eventuale vaglio del provvedimento d’urgenza al Senato sono dimezzati, mentre quelli dei lavori in commissione sono prorogabili di 15 giorni, se il testo è complesso. Il regolamento della Camera ha la facoltà di stabilire modalità e limiti del ricorso alla deliberazione d’urgenza, anche riguardo all’omogeneità del disegno di legge governativo.
Articolo 11 – L’iniziativa legislativa
Con le modifiche all’articolo 71 della Costituzione sancite dall’articolo 11 della riforma si cambiano le norme in merito all’iniziativa legislativa. Questa, in mano al governo, ai parlamentari e agli altri enti abilitati da leggi costituzionali, prevede per la prima volta la possibilità che sia il Senato a proporre una legge alla Camera dei deputati. Il Senato, infatti, può deliberare che un disegno di legge sia preso in esame dalla Camera, a maggioranza assoluta dei suoi componenti (dunque 51 membri, secondo la nuova composizione). La Camera dovrà, a sua volta, esprimersi entro sei mesi dalla deliberazione del Senato. Altro aspetto assai importante della potestà legislativa modificato dall’articolo 11 della riforma che ha suscitato critiche è l’innalzamento del quorum per le leggi di iniziativa popolare. Per queste saranno necessarie le firme non più di 50 mila cittadini, com’è attualmente previsto costituzionalmente, ma di 150 mila. Il medesimo articolo prevede inoltre un obbligo costituzionale affinché i regolamenti parlamentari abbiano tempi e procedimenti certi per il vaglio delle proposte di legge d’iniziativa popolare alla Camera. Nella carta costituzionale ora manca la garanzia che queste proposte vengano discusse e votate, anzi il parlamento le ha metodicamente affossate: solo 3 delle 260 presentate finora (dal 1979) sono diventate legge. Le uniche due che proseguono il loro iter lo devono al M5S. Buon ultimo, è aggiunta la possibilità di indire referendum popolari propositivi e d’indirizzo e altre forme di consultazione popolare, oggi non previsti dalla Costituzione, la cui attuazione è demandata ad apposita legge.
Articolo 10 – La riduzione dei poteri del Senato
Parliamo ancora dell’articolo 10 sul procedimento legislativo. Della riduzione dei poteri del Senato, e conseguente riduzione dei tempi di formazione e approvazione delle leggi (il “risparmio sui tempi della politica”), la riforma fa gran vanto, ma il nuovo articolo 70 e i successivi, a esso collegati, creano un intrico di procedure legislative in cui Senato e Camera hanno diritto di intervento reciproco sui rispettivi lavori. Più che abolire la “navetta” delle leggi tra Camera e Senato – sottolineano i critici – in realtà si allungano i tempi della produzione legislativa, introducendo sei diversi tipi di leggi e procedure che ricadono su ambedue le camere. Alla luce del dettato costituzionale modificato dall’articolo 10, infatti, esse sarebbero: 1) Le leggi sempre bicamerali, di cui continuerebbero a occuparsi congiuntamente Camera e Senato, come le leggi costituzionali, elettorali e di interesse europeo; 2) Le leggi fatte dalla Camera che entro 10 giorni possono essere richiamate dal Senato; 3) Le leggi che invadono la competenza regionale del Senato, da prendere in esame sempre entro 10 giorni; 4) Le leggi di bilancio che devono essere esaminate ed eventualmente modificate dal Senato entro 15 giorni; 5) Le leggi che il Senato può chiedere (a maggioranza assoluta) alla Camera di esaminare entro sei mesi; 6) Infine, le leggi di conversione dei decreti legge che hanno scadenze e tempi ridotti e convulsi, se richiamate e discusse dal Senato. Ciò creerebbe un intrico tra Camera e Senato e un conflitto di competenze che dovrebbe essere risolto d’intesa tra i presidenti delle due camere, demandando al giudizio personale la certezza della norma.
Articolo 10 – Procedimento legislativo
L’articolo 10 tratta del procedimento legislativo. È il punto più importante della riforma, cioè la soppressione del bicameralismo paritario. Con la modifica all’articolo 70 si vuole porre fine alla parità legislativa delle camere sancita dalla Costituzione. Solo la Camera dei deputati mantiene la piena funzione legislativa, verso la quale il Senato può eseguire azioni di attività conoscitiva e formulare osservazioni, ma anche proporre leggi. Questo delibera, congiuntamente, sulle leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e solo per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali relative alla tutela delle minoranze linguistiche, i referendum, le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali e le disposizioni di principio dei comuni e delle Città metropolitane, le norme generali sulla partecipazione dell’Italia alle politiche dell’Ue, i casi di ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di senatore. Il disegno di legge approvato dalla Camera passa al Senato che entro 10 giorni può decidere se esaminarlo, su richiesta di un terzo dei componenti, ed entro 30 giorni può deliberare modifiche che la stessa Camera dovrà vagliare e di cui, se crede, tenere conto. Decorso tale termine si ritiene il Senato non sia interessato al testo, che viene infine approvato dalla Camera e promulgato dal presidente della Repubblica. Nei casi di legislazione prevista dall’articolo 117 (potestà legislativa di Stato e Regioni) le modifiche proposte dal Senato, approvate a maggioranza assoluta, possono essere rigettate dalla Camera a maggioranza assoluta.
Articolo 9 – Indennità parlamentari
L’articolo 9 tocca nello specifico uno dei punti nodali della riforma, le indennità parlamentari e dunque i risparmi connessi alla legge, laddove la Camera dei deputati si sostituisce in toto al Parlamento. Con la modifica all’articolo 69, infatti, i senatori non percepiranno più le indennità parlamentari che resteranno in capo ai soli deputati. Accanto alle altre modifiche previste ai fini del contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, tra gli obiettivi della riforma, ciò garantirebbe un risparmio di 500 milioni l’anno, secondo i promotori del sì. Una cifra irrealistica, ha fatto sapere la Ragioneria generale dello Stato alla ministra firmataria. Al massimo si risparmieranno 60 milioni, assicura una nota redatta fin dall’ottobre di due anni fa dal responsabile del settore, il ragioniere Daniele Franco, nominato dal governo Letta. Una cinquantina di milioni, 49 per l’esattezza, verranno dalla soppressione della diaria per i senatori – ma qualcuno dovrà rimborsarli delle spese di viaggio e soggiorno, assicurano i contabili – di cui 9 dalla riduzione del loro numero. Quasi altrettanti (8,7 milioni) verranno dalla soppressione del Cnel, mentre per il resto la Ragioneria generale sostiene che «i risparmi non sono quantificabili». Sull’indennità dei consiglieri regionali si precisa «di non disporre di elementi utili in merito», mentre i risparmi derivanti dalla soppressione delle Province «potranno essere quantificati solo dalla completa attuazione» della relativa legge del 2014 (il testo della missiva è disponibile online). Dunque i risparmi previsti dalla riforma assommano, nelle stime più ottimistiche, a un’ottantina di milioni l’anno.
Articoli da 6 a 9 – I diritti delle opposizioni
Articoli da 6 a 9, ovvero dai diritti delle opposizioni alle indennità. Con le integrazioni all’articolo 64 della Costituzione (art. 6) sono introdotte novità nei regolamenti delle Camere, sempre approvati a maggioranza assoluta dei componenti, con la previsione di norme a garanzia delle minoranze. Al riguardo, il regolamento della Camera – eletta con premi di maggioranza con conseguenti disequilibri di rappresentatività – dovrà prevedere un apposito Statuto delle opposizioni. Si stabilisce poi per i membri del governo, anche se non fanno parte delle Camere (pur se questo non è esplicitato), il diritto, e se richiesti l’obbligo, di partecipare alle sedute parlamentari. Permane la possibilità delle Camere di prevedere sedute segrete e la norma sui requisiti numerici per le delibere (maggioranza dei componenti per il quorum strutturale, maggioranza dei votanti per il quorum funzionale). Terza novità introdotta è l’obbligo per i parlamentari di partecipare alle sedute dell’assemblea e ai lavori delle commissioni. Un dovere puramente teorico, visto che non si prevede alcuna sanzione, a meno che un’assenza non motivata diventi punibile dalla legge in attuazione di questo comma. L’articolo 7 adegua invece la cessazione della carica regionale o locale alla decadenza da senatore. L’articolo 8 ribadisce che i membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincoli di mandato, mentre scompare la nozione di rappresentanti della nazione per i senatori (che rappresentano gli enti territoriali), permanendo in capo ai soli deputati. Idem per le indennità parlamentari (art. 9), di cui i senatori non godono.
Art. 3 – I senatori a vita
L’articolo 3 della riforma modifica l’articolo 59 della Costituzione, relativamente ai 5 neosenatori di nomina presidenziale. Recita il nuovo dettato costituzionale: “Il presidente della Repubblica può nominare senatori cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Tali senatori durano in carica sette anni e non possono essere nuovamente nominati”. Resta invariata la norma per cui rimane senatore a vita, di diritto e salvo rinuncia, chi è stato eletto presidente della Repubblica. Sostanzialmente, con la nuova normativa si dice addio ai senatori a vita. I nuovi eletti resteranno in carica al massimo quanto il Capo dello Stato, sette anni appunto. Quelli attualmente nominati a vita (Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia) più l’ex presidente Napolitano non verranno però mandati a casa e resteranno in carica. Quindi nell’immediato futuro Sergio Mattarella potrà nominare un solo senatore. Ancora riguardo al Senato, la riforma cancella completamente il precedente articolo 58 della Costituzione, laddove stabiliva il diritto di voto per il Senato agli elettori che avevano superato i 25 anni d’età, e il limite di 40 anni per essere eletti come Senatori. Tale articolo è abrogato, dunque non vi saranno limiti d’età né per eleggere né per essere eletti, salvo la maggiore età. Col risultato – sottolineano i critici – che si potranno avere senatori assai più giovani dei loro colleghi alla Camera, vanificando il Senato come organo consultivo ponderato, con pochi vegliardi in compagnia di amministratori imberbi.
Art. 2 – Composizione ed elezione del Senato
L’articolo 2 sulla composizione ed elezione del Senato è il nodo della riforma. Modifica l’articolo 57 della Costituzione, stabilendo la nuova composizione. A Palazzo Madama siederanno 100 senatori, 95 «rappresentativi delle istituzioni territoriali» e 5 nominati dal presidente della Repubblica. Nessuna Regione potrà avere meno di 2 senatori. I neosenatori saranno scelti tra i consiglieri regionali e delle Province autonome (74, eletti in modo proporzionale), e tra i sindaci dei Comuni (21, uno per Regione). Non essendo più eletti direttamente, decade la circoscrizione estero. La durata del mandato coinciderà con quella delle istituzioni in cui sono eletti (5 anni). Le modalità per l’attribuzione dei seggi e l’elezione dei senatori tra i consiglieri e i sindaci, nonché per la loro sostituzione, saranno stabilite da una legge che dovrà essere approvata dalle Camere. Dunque i senatori non saranno eletti né decadranno tutti insieme, ma in coincidenza con le rispettive elezioni locali. Resta incerto se saranno i cittadini a esprimere chi tra i consiglieri (o i sindaci) sarà senatore o saranno gli stessi consigli regionali. Altra perplessità riguarda il doppio ruolo, in particolare dei sindaci, che potranno occuparsi meno della gestione del territorio. Al regolamento (art. 63) sono demandati i casi in cui elezione e cariche possono essere limitate a garanzia del governo locale. I neosenatori avranno un vantaggio non economico – non percepiranno altro stipendio rispetto a quello da sindaco o consigliere – ma politico, in quanto godranno dell’immunità parlamentare: non subiranno restrizioni delle libertà personali senza autorizzazione dell’aula.
Art. 1 – Il Parlamento
L’articolo 1 della legge di riforma costituzionale modifica l’articolo 55 della Costituzione che passa dalle attuali 13 parole a oltre 200, e già questo ha sollevato un coro di critiche. Nel nuovo articolo alla frase “il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, invariata, si aggiungono gli elementi chiave della normativa che punta alla fine del bicameralismo perfetto. Premesso un principio paritario, laddove “le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”, si afferma infatti che la sola “Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo”, mentre “il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali e… concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabilite dalla Costituzione”. In pratica, ridotti a un terzo, i senatori continueranno a esercitare le loro prerogative in 22 materie: sulle leggi riguardanti la Costituzione, i referendum, l’Ue e gli enti locali. Il nuovo Senato potrà fornire pareri o proporre modifiche di legge entro 30 giorni dall’approvazione (15 per le leggi di bilancio), ma non saranno vincolanti. Soprattutto, non potrà mettere bocca sul governo, dato che sarà la sola Camera a votarne la fiducia. Così, se per i fautori del sì il Senato si avvicina alle democrazie francese e tedesca, dando rappresentanza agli enti locali e velocizzando i tempi delle leggi, per quelli del no il suo ridimensionamento è un pericolo per la stessa democrazia, mentre per altri andava eliminato.
Il quesito
Il 4 dicembre gli italiani si esprimeranno nel referendum sulla legge di riforma della Costituzione voluta dal presidente del Consiglio Renzi e firmata dal ministro per le Riforme costituzionali Boschi. La legge modifica ruolo e numero dei senatori, dando preminenza alla Camera, cambia i rapporti dello Stato con le regioni e altre norme sui poteri del premier e l’elezione del capo dello Stato. Schierata per il sì è la maggioranza di governo, tranne la minoranza Pd, mentre per il no sono le opposizioni, che contestano persino il testo del quesito. Questo, riprendendo testualmente il titolo della legge, recita: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?». Su tale formulazione, criticata perché ritenuta fuorviante, annunciando finalità che non sarebbero perseguite ma meri propositi, pende la spada di un duplice ricorso al Tar del Lazio. Atteso a giorni, è stato presentato dai 5 Stelle e da Sinistra italiana che chiedono un testo imparziale. Un altro ricorso al Tar, oltre che al tribunale civile di Milano, è stato fatto da due docenti di Diritto, Barbara Randazzo e Valerio Onida, già presidente emerito della Corte costituzionale. Il ricorso è motivato dalla disomogeneità del quesito (una sola risposta su questioni diverse). Se fosse accolto, il referendum sarà sospeso e la materia rinviata alla Corte.
 MAURIZIO ZUCCARI

1 Dicembre 2016
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il giornale
Più letto del mondo